lunedì 11 aprile 2011

edoardo sovrani 269497

La forma del progetto architettonico, come quella dell’oggetto d’uso o di quello artistico, è definita parzialmente dal materiale, dagli strumenti, dalle tecniche, dalle tecnologie e dal luogo. A causa di considerazioni di questo genere, Gottfried Semper fu accusato di materialismo, accuse alle quali si difese spiegando che questi elementi come la materia e lo strumento sono al servizio delle idee. La forma è dipendente da questi fattori ma non per questo unica, esiste una kunstform che può assumere mille varianti anche all’interno della regola e della werkform.
Non tenere conto di questi presupposti conduce facilmente all’incoerenza, come avvenne a cavallo tra l’ottocento ed il novecento, quando, come testimoniano i dibattiti all’interno del Werkbund ed il capitolo occhi che non vedono del Verso una Architettura di LeCorbusier, il disegno della nuova classe borghese che all’invenzione della macchina doveva la propria condizione di supremazia economica, non riconosceva nella forma ad essa congenita un motivo di vanto, creando al contrario oggetti seriali di produzione industriale con forme che imitavano l’ormai perduto lavoro manuale. Oggetti che spogliati dell’ hic et nunc, a dirla con Walter Benjamin, rivelavano l’aspirazione del borghese ad imitare goffamente la classe aristocratica appena soppiantata.
L’avvento dell’epoca digitale presenta alcune analogie con la rivoluzione industriale: una tecnologia che non crea soltanto lo strumento ma ridefinisce l’oggetto di produzione; con la differenza che questa volta la prima reazione è stata diametralmente opposta: in una società soffocata da un bombardamento visivo e mediatico al fine di individualizzare le masse,
che vedono realizzare temporaneamente il proprio io pubblico nel potere d’acquisto del nuovo, che per ovvi motivi difficilmente corrisponde al meglio (come lucidamente intuì più di mezzo secolo fa Guy Debord nella Società dello spettacolo), una generazione di archistar si è avvicinata immediatamente allo strumento digitale senza dimostrarne padronanza, e con estrema superficialità, poveri di forme soggiacenti, e con l’alibi di essere al di sopra di regole obsolete. Si è quindi cercato subito la forma nuova, senza trovarla. D’altronde si tratta di una generazione alla deriva della propria disillusione, che ha origine nell’affondamento del modernismo e maturazione nel post-modernismo o nel decostruttivismo, e che si arrende alla necessità, ancora tristemente contemporanea, di essere presenti, con pochi secondi a disposizione, sul palcoscenico.
Vi è poi un’altra linea che affronta l’architettura come impegno civile e sociale, che si avvicina ad una comprensione più analitica delle esigenze e delle potenzialità del contemporaneo. Green prefab sfrutta il mezzo digitale per dare pragmatica risposta ad una problematica che nasce assieme alla separazione del lavoro. Ricongiunge architetti e industria, fa nascere una collaborazione, un dialogo, un’ottimizzazione che deriva dallo scambio di saperi, dalla coordinazione di specialismi e controllo etico e teorico. Ricongiunge e garantisce la coerenza del progetto ai reali elementi della sua realizzazione. Rende inoltre possibile una maggior qualità di controllo ambientale affidando la ricerca del dettaglio costruttivo ad esperti. La prefabbricazione non è in questo senso un limite alla creatività, ma una qualità aggiunta. Questa collaborazione è il terreno fertile per la ricerca di una possibile forma nuova, congenita al mezzo digitale. Infondo l’architettura non è scultura, formalismo, disegno astratto, ma montaggio tettonico di elementi, (quasi) come i lego.

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